Il pregiudizio anitmeridionale?

Petrusewicz

da CALABRIA ON WEB

Il pregiudizio antimeridionale? Marta Petrusewicz: “E’ tra i lineamenti fondativi dell’Italia”

Il cranio di Villella? Da consegnare ai discendenti che lo reclamano. Incontriamo la professoressa Marta Petrusewicz, ordinario di storia moderna all’Università della Calabria. Già titolare di cattedra  presso i prestigiosi atenei americani di Harvard, Princeton e City University di New York, ha all’attivo numerosi saggi sul Sud e la Questione meridionale

 Con lei parliamo della controversa questione del cranio di Giuseppe Villella, esposto a Torino al Museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso”. Una questione che proprio in questi giorni ha visto un rinfocolarsi del dibattito (e delle polemiche), dopo l’uscita del libro dell’antropologa di origini calabresi Maria Teresa Milicia “Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso” (Salerno Editrice, 2014).

A proposito della querelle sul cranio del brigante Villella lei ha parlato recentemente di “guerra dei crani”, con riferimento ad altre situazioni similari, sottolineando anche che alla base di esse c’è sempre un conflitto tra scienza ed appartenenza. Vogliamo approfondire questo concetto?

In un mio articolo pubblicato dal Quotidiano della Calabria (9 aprile 2014, ndr) a cui lei si riferisce, ho raccontato dei conflitti similari accesisi in altri contesti. L’esempio emblematico che cito è il conflitto, negli Stati Uniti, tra la comunità accademica e le tribù indiane, su chi dovrebbe detenere il controllo degli antichi teschi ritrovati nelle terre una volta abitate degli indiani.  La battaglia politica e legale vide contrapposti, da una parte, le “scienze” di stampo ottocentesco di antropologia culturale e archeologia e, dall’altra, le comunità dei nativi americani.  In queste “guerre dei teschi” (Scull Wars), le posizioni principali erano: dalla parte degli scienziati, «gli scheletri (come artefatti) sono fonti imprescindibili per la storia degli insediamenti umani in America»; dalla parte dei nativi, «il diritto di dare una degna sepoltura alle spoglie della propria gente». Su un altro piano, il conflitto riflette la storia di torti, soprusi, e diffidenze – la disciplina dell’antropologia che si sviluppò in coincidenza con la crescente oppressione dei nativi, la base razziale delle teorie del progresso, il darwinismo sociale. I nativi reclamavano la loro storia e la loro dignità. La scienza voleva impedire che rivendicazioni dell’appartenenza impediscano per sempre lo studio dei resti umani.

Dunque, a proposito del cranio di Villella, siamo in presenza di un “reperto scientifico” che sta bene dov’è, come la Milicia sostiene nel suo libro, oppure di un resto umano che merita la giusta sepoltura?

Ogni resto umano merita la giusta sepoltura, è ovvio. Per quanto riguarda il “reperto scientifico”, il cranio di Villella lo è ancora, ma in un senso alterato.

 

Nessuno più s’interessa alle sue “fossette”, e il posto d’onore che occupa al Museo storico “Cesare Lombroso” di Torino, è dovuto soltanto alla sua funzione di illustrazione del famoso “errore di Lombroso”. L’interesse dell’amministrazione comunale di Motta Santa Lucia è ugualmente da spettacolo: reclamare il cranio per metterlo al centro di un culto improvvisato del “brigante Villella”.
Personalmente, sarei incline, se qualcuno me lo chiedesse, a consigliare di consegnare il teschio di Villella ai discendenti che lo reclamano. Tuttavia, mi sembra più importante lavorare perché, invece delle liti pretestuose, si sviluppi una cooperazione tra i musei e altri luoghi di scienze che conservano per ragioni di studio i resti umani e le comunità interessato. Nel caso di cui stiamo parlando, tra il Museo Lombroso e le comunità meridionali. Nelle vicende statunitensi, che racconto nell’articolo sul Quotidiano, un accordo sembra che stia emergendo. La ricerca sì, ma svolta con rispetto, in modi concordati con le autorità tribali (sempre più interessate alla storia genetica della propria gente, resa possibile dagli esami del DNA). Va ricordato che questa cooperazione è stata, comunque, preceduta da due accorgimenti importanti: una legge del 1990 di protezione delle tombe nativo-americane che imponeva ai musei di assistere i diretti discendenti che reclamavano le ossa; e un progressivo mutamento di musei di antropologia, da templi di superiorità razziale e imperialista sui “nativi” o/e i “primitivi” in musei “di storia dell’antropologia”.

 Giuseppe Villella fu un brigante o cos’altro?

Dalla ricerca di Milicia, svolta negli archivi di Motta, risulta che quel Giuseppe Villella che sembra di più corrispondere al Villella del cranio, era un ladruncolo, talvolta violento, più un “brigantello” che un brigante. Sostanzialmente, un poveraccio. Poi, come lei sa, il termine “brigante” è molto vago.

Parliamo di Lombroso. Qual è la sua responsabilità nella persistenza di tanti pregiudizi antimeridionali?


Negli ultimi tempi nel  Sud stanno crescendo movimenti che nel brigantaggio postunitario trovano una sorta di mito fondativo. Secondo lei, fin dove è giusto spingere questa rincorsa all’identità?
La sua responsabilità diretta, direi nessuna. La sua tesi sulle radici biologiche del crimine e sull’identificabilità del potenziale criminale da tratti fisici, tuttavia, aveva alimentato l’interpretazione razziale dell’inferiorità del Mezzogiorno, e la teoria della “razza maledetta”. Dall’altra parte, Lombroso rimane il padre della criminologia moderna e colui che per primo la trasformò in una disciplina autonoma.
Personalmente, Lombroso non era razzista, e non nutriva ostilità verso la Calabria, dove prestò servizio come medico militare all’epoca della guerra al brigantaggio post-unitaria. Ne hanno concordato la professoressa Mary Gibson, una dei maggiori studiosi di Lombroso, e il prof. Vito Teti, che aveva sviscerato il concetto di “razza maledetta” e i pregiudizi antimeridionali, in un recente incontro svoltosi all’Università della Calabria. Ma la cosa più importante è, secondo me, rendersi conto che il pregiudizio antimeridionale è tra i lineamenti fondativi dell’Italia; che esso non solo non è scomparso ma, anzi, finì per diventare un sentire comune e diffuso; che ha alimentato istanze separatiste; e che si intensifica al tempo della crisi come questa che viviamo. Rispondere al pregiudizio antimeridionale con un altro pregiudizio è una sciocchezza e uno spreco di energie sociali.

 

Lei ha ragione che si tratta di una “rincorsa all’identità”, propria dei giovani ribelli. Questi gruppi, composti da giovani intellettuali post-coloniali, universitari precari, attivisti politici, artisti, cercano radici alternative, miti fondativi tratti da storie di ribellioni, da leggende brigantesche di vendette contro torti, soprusi e ingiustizie. La cinematografia sui briganti-eroi della resistenza (Li chimavano briganti); Ninco Nanco e altre storie cantate di Eugenio Bennato; il viaggio del rapper calabrese Kento nelle proprie Radici, fatte di “vita, appartenenza, sangue, amore e cicatrici”. Vi si sente una richiesta forte: che si ripari al torto di aver soppresso una parte importante del processo di Unificazione italiana. La richiesta che va oltre, a cercare una propria lotta. Fin dove è giusto che questo sentimento si spinga, non posso saperlo. Ripeto che sarebbe una sciocchezza trovarsi un “altro” contro cui sfogarlo. Inoltre, mi piacerebbe che le identità meridionali, italiane, umane rimanessero comunque multiple.

Nella crisi generale che attanaglia il Paese e l’Europa, il Mezzogiorno sembra sempre più isolato e malinconico. Secondo lei su quali risorse dovrebbe investire per risollevarsi?

Il Mezzogiorno è depresso e sfiduciato, come forse mai prima. Si sente costantemente umiliato e, perversamente, partecipa alla propria denigrazione. Il Mezzogiorno non si ama più, non conosce la propria bellezza, non la vuole e non la sa più curare, non riconosce il bene comune. Penso che a questo bisognerebbe riflettere tutti, in dibattiti grandi e piccoli. Compilare i cahiers des doléances e le «descrizioni».

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